La via della formazione per un buon lavoro
di Pierangelo Milesi (presidente provinciale Acli)
I dati parlano chiaro. Con una disoccupazione giovanile al 33,8% e ad un tasso di Neet (Neither in Employment or in Education or Training) al 23,3%, per non parlare della condizione spesso precaria e poco appagante anche dei giovani che pure un lavoro ce l’hanno, siamo di fronte a una proiezione della dimensione del lavoro grave e drammatica.
Le Acli da sempre indicano la strada della formazione come la più efficace per favorire e creare più e buona occupazione. Le imprese, infatti, non sono alla ricerca di un “lavoratore”, bensì di una persona con competenze, abilità e conoscenze precise. È da una buona formazione, a scuola/università, nella vita e in azienda, che si decide un’importante fetta del futuro professionale, sia esso da dirigente o da operaio, e quindi della possibilità di avere un lavoro equamente retribuito e tutelato, nonché soddisfacente.
Gli strumenti per operare questa strategia sono in gran parte già presenti, anche se sicuramente migliorabili e perfettibili. Ne ricorderei due su tutti: i Pcto (Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento, che fino a poco tempo fa si chiamavano alternanza scuola-lavoro) e l’apprendistato. I primi dovrebbero rappresentare, dal punto di vista educativo e formativo, un momento fondamentale per maturare competenze soft e hard utili a posare i primi mattoni del profilo professionale di un giovane, nonché a prendere le misure su come funziona il mondo dei “grandi” e farsi un’idea di quali professioni svolgere in futuro.
L’apprendistato potrebbe (e dovrebbe) rappresentare una delle vie privilegiate dalle imprese per ingaggiare giovani talenti. Questo strumento, oltre che garantire un risparmio sul costo del lavoro, rappresenta uno strumento formativo dei giovani unico. Nella sua versione duale (primo e terzo livello), impresa e istituto formativo devono mettersi a tavolino per la stipulazione di un piano di formazione congiunta e personalizzata del giovane, finalizzato al conseguimento di un titolo di studio e allo sviluppo e apprendimento delle competenze che servono all’azienda. Un’occasione unica per sradicare il tanto lamentato problema del mismatch delle competenze, che in certe aree del paese supera il 30%.
La vera sfida per il mondo del lavoro è dunque quella di mettere a pieno regime questi due strumenti di conciliazione giovani-imprese che sono a disposizione. Non per portare avanti una battaglia di nicchia, ma perché, in un mondo del lavoro in continuo transito e trasformazione, la formazione integrale della persona deve essere al centro della questione occupazionale.
Un approccio troppo sequenziale, rappresentato dall’idea che prima si studia e poi si lavora, senza neanche considerare la possibilità di un intreccio virtuoso tra questi due mondi, si traduce nei tempi biblici della transizione scuola-università-lavoro, quasi due volte maggiore in Italia rispetto alla media europea.
Occorre implementare una preparazione al lavoro dei giovani che sia moderna e attenta alla persona, che tenga in considerazione le loro ambizioni e i loro desideri, ma che soprattutto sappia costruire ponti per una reale transizione nel mondo del lavoro. Perché sia per tutti, sempre, un buon lavoro.
Rivoluzione e pandemia. Il lavoro che cambia
di Daniela Del Ciello
Per il DNA della nostra associazione non possiamo esimerci, periodicamente, di fare qualche riflessione più approfondita sul tema del lavoro e delle sue trasformazioni. Le pagine che seguono sono quasi interamente dedicate al lavoro.
Ogni fase di grande trasformazione, che in alcuni casi arriva sui libri di storia e si chiama “rivoluzione”, porta con sé grandi moti di speranza e al contempo di disperazione. C’è chi scorge il baratro e chi vede il ponte. Ci trovavamo nel pieno della Quarta Rivoluzione Industriale (la famosa Industria 4.0), ancora il dibattito non si era spento, ancora nessuna catastrofe si era verificata, ma anche il luminoso progresso promesso dall’innovazione tardava a manifestarsi. Eravamo ancora lì, in attesa che la rivoluzione si compisse del tutto, ed è arrivato l’imprevisto. Un virus, una pandemia.
Fermi tutti, spegnete le macchine.
Ora che siamo ripartiti (i dati Istat a luglio indicavano un numero dei lavoratori dipendenti superiore a quello di febbraio 2020) ci dobbiamo chiedere se la pandemia (che in ogni caso è ancora in corso) abbia lasciato strascichi sul nostro modo di lavorare, se ha portato qualche beneficio, se ha accelerato qualche processo. La domanda è retorica, perché è evidente ad esempio come la digitalizzazione del lavoro d’ufficio, già prassi nelle grandi aziende o in quelle più piccole ma evolute, sia arrivata persino nella polverosa Pubblica Amministrazione, dove tuttavia si è scelto di non mantenere il modello “smart” imposto dall’emergenza sanitaria. Il cambiamento più evidente, lo possiamo dire, è stato per i “colletti bianchi”. Gli imprenditori si sono resi conto che le loro aziende non sono collassate pur non vedendo i loro dipendenti in faccia ogni singolo giorno.
Il più grande effetto collaterale positivo del Covid-19, a mio modesto (ed egoista) parere. Ma in fabbrica? Al supermercato? In ospedale? Forse c’è qualche protocollo in più da seguire, attenzioni maggiori alla salute degli operatori e delle operatrici, ma la sostanza?
Nella sostanza credo sia cambiata la relazione che abbiamo con l’attività che ci dà da vivere. I numeri dicono che, a fianco dei numerosi licenziamenti avvenuti nei mesi di emergenza, causati dalla contrazione delle attività, la pandemia ha portato anche a numerose dimissioni volontarie. La pandemia ha portato molte persone a rivalutare le proprie priorità in un contesto che aveva visto stravolgere il proprio tempo e il proprio spazio. L’aspetto economico non è sempre quello decisivo. I lavoratori e le lavoratrici cercano sempre più (la pandemia ha solo accelerato il processo) una situazione lavorativa in cui possano davvero realizzarsi come professionisti e persone, in aziende che investano nella loro formazione e che lasci loro il tempo per avere una vita soddisfacente anche al di fuori del lavoro.
Molte aziende lo hanno capito. E stanno investendo in welfare e formazione. Crediamo sia questo il futuro buono del lavoro. E mentre facciamo il tifo perché le situazioni virtuose si moltiplichino anche sotto la spinta di lavoratori e lavoratrici non disposti ad accontentarsi, non possiamo non piangere per gli oltre 1000 morti che abbiamo dovuto contare anche quest’anno sui luoghi di lavoro. In uno Stato in cui le norme per la Salute e la Sicurezza sul lavoro (contenute nel Testo Unico sulla Sicurezza, Decreto Legislativo 81/08) prevedano già, sulla carta, il “vaccino” che dovrebbe contrastare questo fenomeno, crediamo che Formazione e Cura (due parole chiave che vedremo anche nelle prossime pagine) restino gli antidoti più efficaci. Insieme ovviamente ai controlli e le risorse per farli.
In questo numero di Battaglie Sociali
Filo Rosso
Ma non è la fine del mondo (di Paolo Ferrari)
Cura e formazione (di Fabrizio Molteni)
Povertà e lavoro (di Bruno Di Giacomo Russo)
I segni dei tempi
La Cop26 di Glasgow (di Maurilio Lovatti)
Fatti non foste
Ritorno al futuro (di Stefania Romano)
Librarti
di Pierangelo Milesi e Daniela Del Ciello
Annales
di Beppe Foresti
Ma il prezzo è veramente giusto?
di Fabio Scozzesi
Sportello Lavoro
di Fabrizia Reali
Come sta cambiando il welfare
di Luciano Pendoli
Un mondo immane
di mons. Alfredo Scaratti
e molto altro...