Le misure di contrasto alla disoccupazione giovanile di questi anni hanno avuto, purtroppo, un impatto limitato sui giovani europei. Sono più di 5 milioni in tutto il continente i ragazzi che ad oggi non studiano e non lavorano. Questa fascia di popolazione è la più fragile rispetto ai cicli economici sempre rapidi. Dall’altra parte la mobilità sociale risente sempre di più dell’aumento dello spostamento della ricchezza nelle mani di pochi e costituisce in modo sempre più evidente una frattura economica e sociale importante. Oltre all’investimento nei progetti di volontariato e mobilita europea sarà determinante nei prossimi anni garantire la formazione long life learning come tutela per ogni giovane lavoratore che si confronta con una realtà sempre più veloce e complicata da comprendere. Una tutela che garantisca la possibilità di costruire esperienze di formazione transnazionale che generino valore economico e sociale.
Si applicherebbe limitatamente alle transazioni fra attori operanti abitualmente sui mercati finanziari che spesso avvengono in modo del tutto automatizzato e speculatorio. Le transazioni come pagamenti per beni e servizi, prestazioni lavorative, rimesse all’estero non sarebbero soggette alla TTF. Prestiti interbancari a breve termine e tutte le ordinarie operazioni bancarie (prelievi, versamenti, bonifici, ecc.) sarebbero esclusi dall’applicazione della tassa. Parte del gettito raccolto (potenzialmente il 50%) verrebbe impiegato per ridurre il debito pubblico e per compensare le enormi spese pubbliche (pagate con i soldi dei contribuenti) degli ultimi mesi risultate necessarie per salvare il sistema bancario e finanziario nonché al sostegno al reddito e all’occupazione e alla mitigazione delle criticità sociali acuitesi con la crisi.
Un’altra parte del gettito verrebbe destinata in aiuti ai paesi più poveri del pianeta e rappresenterebbe una risorsa di importanza fondamentale per realizzare gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile 2015-2030 fissati dalla comunità internazionale nel 2015.
Fondo sociale UE per finanziare il welfare aziendale e i diritti dei nuovi lavoratori
In Italia i salari sono bloccati ai valori di venti anni fa: alcuni centri studio, stimano che tra il 2000 e il 2017, gli stipendi dei lavoratori dipendenti siano aumentati di appena 400 euro, un’inezia se si considera che di mezzo c’è stata l’entrata nell’euro e la crisi economico-finanziaria del 2008. Nel frattempo, lo Stato sociale è andato definitivamente in crisi. Quindi meno soldi e meno servizi. Il futuro non appare migliore, quindi lo Stato avrà sempre meno risorse e le aziende saranno sempre più in difficoltà.
Visto che per aumentare gli stipendi serve una ripresa economica bella forte, nel frattempo, cosa possiamo fare per dare una mano ai lavoratori e alle loro famiglie? Dal 2016, in Italia si è iniziato a parlare di welfare aziendale, ossia di un pacchetto di servizi e benefici non monetari che l’azienda offre al lavoratore per migliorarne le condizioni di vita e il benessere: si va dall’assistenza sanitaria integrativa ai trasporti casa-lavoro, passando per assicurazioni, mutui e finanziamenti, ma anche sport e cultura. I benefici che possono essere inseriti nel welfare aziendale sono numerosi. Sino ad ora lo Stato ha investito ogni anno una cifra attorno a cinquecento milioni di euro, erogati alle aziende sotto forma di defiscalizzazione. Se vogliamo migliorare davvero la vita dei lavoratori e delle loro famiglie questi soldi non bastano.
Per questo motivo proponiamo che dei 101 miliardi stanziati dall’UE nel periodo 2021-2027 per il Fondo Sociale Europeo Plus, una quota significativa (per l’Italia almeno 1,5 miliardi) sia destinata a finanziare interventi di welfare aziendale. Il ruolo positivo dell’Europa nella vita dei lavoratori deve diventare concreto e tangibile: se l’asilo dei bambini lo paga l’Europa sarà più semplice riannodare il legame tra le istituzioni e i cittadini. Non vogliamo, però, che questa proposta si trasformi in un semplice trasferimento di fondi europei, e quindi pubblici, alle aziende per cui chiediamo di vincolare gli stanziamenti ad accordi con i sindacati, con le autorità di gestione dei fondi (le Regioni) e con gli enti delegati alla gestione delle politiche sociali sul territorio. In questo modo, sarà possibile rafforzare anche il potere di negoziazione nei confronti di chi vende i servizi e sarà possibile incardinare le iniziative nel welfare territoriale, coinvolgere anche le aziende più piccole e vigilare sull’effettiva erogazione dei benefici ai lavoratori.
Finanziare il welfare aziendale con i fondi strutturali dell’UE è una proposta fattibile nel breve periodo poiché esistono già degli schemi operativi, sperimentati su piccola scala in Piemonte e Lombardia. Avvicinare l’Unione Europea alla quotidianità delle persone significa che direttamente l’UE interviene sulla qualità del lavoro in termini sostanziali e non solo teorici.
Welcoming Europe
Le Acli sono convinte che la mobilità umana è ormai un fenomeno strutturale. Pertanto l’immigrazione non può che essere affrontata in modo organico e a livello globale. Ecco perché l’Europa deve fare la sua parte ed elevarsi ad un Unione sociale, oltre che economica e politica. In questa cornice, le Acli hanno aderito alla Campagna Welcoming Europe, un’ICE (iniziativa dei cittadini europei) che ha tre obiettivi: creare passaggi sicuri per i rifugiati, decriminalizzare la solidarietà, proteggere le vittime di abusi.
Nel dettaglio, i cittadini firmatari della petizione intendono supportare i rifugiati con programmi di sponsorship chiedendo alla Commissione Europea di offrire un sostegno diretto ai gruppi locali e/o alle associazioni della società civile che aiutano i rifugiati beneficiari di un visto d’ingresso. Inoltre, la cittadinanza europea, convinta che nessuno (né singoli, né associazioni) debba essere multato o chiamato in giudizio per aver offerto assistenza e rifugio a scopo umanitario, chiede che la Commissione fermi tutti quei governi che criminalizzano la solidarietà e i loro attori, volontari e ong. Infine, nella convinzione che ogni persona debba avere pieno accesso alla giustizia, i cittadini europei chiedono che la Commissione garantisca procedure, norme e misure idonee a tutelare le vittime di sfruttamento sul lavoro, quelle cadute nella trappola della criminalità organizzata e quanti hanno subito violazioni dei diritti umani mentre tentano di varcare i confini dell’Europa.
Vi è inoltre la questione della redistribuzione degli immigrati che arrivano attraverso il Mediterraneo, salpando in Italia, Grecia e Spagna e che non può più essere sottaciuta. Quasi mai le persone che arrivano in Italia ambiscono a restarvi, eppure rimangono indissolubilmente legati al Belpaese per la mancata riforma del Regolamento di Dublino. Oggi si può parlare di due tipi di ricollocamento. C’è la cosiddetta “relocation”, un meccanismo adottato dall’UE tra il 2015 e il 2017, volto a redistribuire i migranti fra paesi membri in base a quote prefissate, per alleggerire la pressione degli sbarchi – allora molto numerosi - su Italia e Grecia. Tuttavia tale meccanismo non ha funzionato: su circa 100.000 migranti che dall’Italia e dalla Grecia dovevano essere ricollocati, soltanto un terzo è stato effettivamente accolto negli altri paesi dell’Unione Europea. Infatti, la maggior parte delle nazioni dell’Europa dell’Est si sono rifiutate di ospitare i migranti, altre ne hanno accolti meno rispetto a quanto pattuito.
Lo stesso atteggiamento vige nella ricollocazione degli ultimi mesi, che è diversa da quella precedentemente descritta. Si tratta di una relocation concertata di volta in volta per trovare una soluzione alle navi militari, commerciali e delle ong che salvano vite umane e che sono costrette a navigare per giorni senza trovare un porto sicuro in cui poter attraccare. Questi accordi, su cui è facile soprassedere perché sono stretti verbalmente al momento dello sbarco, creano problemi politici e crisi diplomatiche che fanno male innanzitutto ai migranti, ma anche alla stessa Unione, poiché mostra tutta la sua fragilità democratica, umanitaria e sociale. Siamo fuori tempo massimo per agire: le Acli sostengono che il Regolamento di Dublino deve essere cambiato quanto prima.
Introduzione del transnational labor citizenship
Tale soluzione prende spunto da alcuni studi nordamericani e consiste in una speciale forma di regolazione della mobilità geografica per ragioni economiche. In particolare, il lavoratore migrante riceverebbe il visto Tlc solo se è inserito in programmi di formazione nel paese di origine. Ciò obbligherebbe il migrante, successivamente all’ingresso in Europa, a svolgere un’ulteriore periodo di formazione professionale nell’ambito del lavoro svolto. Oltre a recuperare le competenze già acquisite nel Paese di origine, la formazione dovrebbe essere programmata e certificata secondo gli standard europei. I lavoratori muniti di visto Tlc avrebbero la possibilità di ottenere la residenza permanente e, eventualmente, la cittadinanza. In Italia un ruolo importante, nell’ambito dell’analisi del fabbisogno di manodopera specializzata e formata da inserire nei programmi di accesso Tlc, potrebbe essere svolto anche dagli istituti tecnici superiori e dall’università, in cooperazione con associazioni sindacali e datoriali. I principi su cui si fonda tale proposta intendono combinare la formazione professionale con la protezione del migrante nonché la collaborazione istituzionale di governi e organizzazioni con una forma di mobilità più semplice e controllabile. L’effetto potrebbe coincidere con la garanzia delle prestazioni sociali e una visione solidale sul futuro dei lavoratori migranti nel nostro contesto sociale.