È meglio vendere un gran numero di autovetture con un basso margine che venderne meno con un ampio margine di profitto… Questo consente ad un numero maggiore di persone di comprare l’autovettura e dà ad un numero maggiore di persone impiego ad un buon salario.
(Henry Ford, imprenditore)
La Costituzione, all’articolo 36, stabilisce che il lavoratore deve ricevere una retribuzione proporzionata alla “qualità e quantità del suo lavoro”, ma anche e soprattutto sufficiente “ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Un traguardo da perseguire, in un contesto non certo privo di criticità.
Il lavoro povero, infatti, nel nostro Paese non è un’eccezione ma la punta di un iceberg; una realtà quotidiana che zavorra il futuro del Paese. In Italia - unico Paese tra i 27 della UE che ha assistito a una riduzione del salario medio dal 1990 a oggi – nella fascia tra i 30 e 40 anni, 1 persona su 6, specie se donna e giovane (peggio se straniera), pur lavorando, ha redditi complessivi prossimi alla soglia di povertà e 3 lavoratori su 10 sono in una condizione di vulnerabilità.
Il problema del c.d. “lavoro povero” non è risolvibile da una singola misura od intervento. Ciò che occorre è, invece, una strategia integrata costituita da più strumenti diversificati, ma collegati fra loro. Il salario minimo e la contrattazione collettiva erga omnes sono misure essenziali per ristabilire eguaglianza e inclusione sociale, insieme al rinnovo dei contratti. Per intervenire sulla piaga dei “working poors” va anche arrestata la proliferazione dei c.d. “contratti pirata”, che determinano lavoratori di serie A e di serie B, che arrivano a guadagnare un terzo in meno rispetto a chi gode di contratti migliori per il medesimo impiego.
Uno degli interventi principali deve essere costituito dalla rimodulazione dei livelli salariali tramite un rinvio ai contratti collettivi. Questo però non basta: da tempo ormai appare chiaro che la povertà è una dimensione in cui non influisce soltanto il mero dato retributivo, ma anche l’accesso a determinati servizi e tutele.
Lo Stato non può rischiare di far parte eguali tra diseguali, non può stare a guardare l’oggettivo indebolimento della voce del lavoro o, per dirla con Warren Buffet, non prendere atto che “c’è una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e la stiamo vincendo”.
Come ammoniva il messaggio dei Vescovi per il 1° maggio 2020, “le rivoluzioni tecnologiche hanno sollevato i lavoratori dalla fatica e da mansioni ripetitive, aumentando la creazione di ricchezza, con la tendenza a concentrarla nelle mani dei pochi proprietari delle nuove tecnologie. Sono state le politiche fiscali progressive a redistribuire la maggiore ricchezza, trasformandola in domanda diffusa e facendo nascere nuovi beni e servizi, attività, mestieri e professioni. Non è il progresso scientifico e tecnologico che “ruba” il lavoro, ma l’incapacità delle politiche sociali ed economiche di redistribuire la maggiore ricchezza creata”.