Caro direttore, paragonare gli Usa del primo presidente americano cattolico, Kennedy, e gli Usa del secondo presidente americano cattolico, Biden, è un esercizio forse inutile, date le enormi differenze. Gli anni Sessanta erano colorati dal desiderio di innovare, di attraversare gli orizzonti che si spalancavano. Gli anni che stiamo vivendo appaiono invece a tinte più fosche, crepuscolari: come paragonare l’alba al tramonto. Ma non solo. Lo slogan con cui Kennedy vinse la campagna elettorale fu A time for greatness, perché gli Usa sentivano di essere i realizzatori di un grande disegno mondiale di pace. Lo slogan con cui Trump ha vinto le elezioni fu il notissimo Make America great again, dove la parola grande continuava a sussistere, ma di grande non c’era più un disegno di pace, semmai il ruolo degli Usa per gli Usa: tanto per dichiarare l’avvenuta retrocessione mondiale. Nonostante tutto questo un paio di cose in comune Kennedy e Biden ce l’hanno: entrambi si trovano nel bel mezzo di un grande cambiamento temporale ed entrambi devono rispondere a una forte domanda popolare.
La domanda a cui Kennedy dovette rispondere aveva a che fare coi diritti civili, la battaglia cruenta tra i bianchi e i neri. Kennedy la affrontò da leader, dicendo anche cose scomode e pericolose, e dando un contributo fondamentale. Dopo di lui il suprematismo bianco fu un’altra cosa: una cosa minore. A Biden rimane ancora da lavorare sui diritti civili, certo, ma con la drammatica situazione pandemica che c’è la domanda a cui rispondere riguarderà anzitutto i diritti sociali, dalla sanità all’assistenza alla previdenza. La povertà è radicata negli Usa, la pandemia l’ha resa ancor più profonda, una deep poverty. Biden dovrà lavorare per creare un’infrastruttura sociale di base capace di sanare le fratture che attualmente condannano milioni di cittadini statunitensi all’indigenza e all’insicurezza e che, peraltro, consentirono la vittoria di Trump. Kennedy lavorò sui diritti civili anche perché era coerente con l’idea di un disegno universale di pace e di sicurezza. Joe Biden dovrà lavorare sui diritti sociali in modo coerente con l’idea del bene comune, del fatto che in questo dramma mondiale nessuno si salverà da solo. In questo senso gli farà molto comodo la dottrina sociale di papa Francesco, che punta molto sui temi della povertà, dell’ambiente, dell’inclusione sociale e dell’immigrazione e della cooperazione internazionale per promuovere un mondo più fraterno e inclusivo, più ricco di differenze per essere meno diseguale.
Se i simboli hanno ancora un valore, le prime scelte della squadra di governo di Biden vanno in questa direzione, dando spazio alle 'minoranze politiche', come le donne e le diverse etnie, a partire dal primo di tutti i simboli, la vicepresidente Kamala Harris. Biden potrà così superare il paradigma Wasp, ossia il fatto che la classe dirigente che governa di Stati uniti debba essere bianca, protestante e di origine anglosassone. I tempi sono cambiati, era tempo che anche il governo americano registrasse il cambiamento. Chi invece fatica a essere all’altezza della sfida dei tempi è un certo mondo cristiano, anche cattolico, che dipinge Trump come un disinterassato 'cavaliere' che si batte per valori veri. Il cattolico Biden, invece, è descritto come asservito all’ideologia globalista del Grande reset e alla sua agenda antiumana e anticristica. Insomma Biden dovrà lavorare anche su questo. La religione è dimensione troppo importante, pure per il governo.
Roberto Rossini - Presidente nazionale Acli
Lettera pubblicata sul quotidiano Avvenire il 20 gennaio 2021