Dieci buoni motivi per non sposarsi in Italia

Mercoledì 4 settembre 2013

In vista della 47° Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, l’Ufficio Studi delle Acli provinciali di Brescia, in collaborazione con il Patronato e con il Caf-Acli, ha elaborato un breve documento dal titolo Dieci buoni motivi per non sposarsi in Italia.

Obiettivo dell’elaborato è evidenziare come nel nostro Paese le politiche fiscali, sociali e previdenziali non sostengano la famiglia.

La presentazione del documento si terrà
lunedì 9 settembre alle ore 18.00
presso la sede provinciale delle Acli (via Corsica 165, Brescia)

Sono invitati gli organi della Stampa Locale, i Parlamentari della Repubblica e i Consiglieri Regionali eletti nella provincia di Brescia.
 


Dieci buoni motivi per non sposarsi in Italia

 

Che cosa succede?!
 
 
Precisiamo subito. Le Acli ritengono la famiglia un’asse portante per la stabilità sociale e per la felicità personale. Senza se e senza ma. Il nostro suggerimento alle giovani generazioni non sarebbe diverso da quello che è stato suggerito anche a noi: create una famiglia.
La famiglia è generazione e generatività. La famiglia è – per usare l’espressione che i Vescovi mettono per iscritto nel Documento preparatorio alla Settimana Sociale 2013 – il miracolo dell’amore nella differenza. O ancora il luogo e il momento in cui l’unione tra l’Io e il Tu crea il Noi, cioè una comunità di vita e di intenti: non a caso chiamiamo il nostro coniuge con-sorte, proprio per indicare con chi si è deciso di condividere la sorte, un destino.
 
Bene. Questo è il nostro punto di vista sulla famiglia.
 
Peraltro, anche sul piano schiettamente sociale, fare famiglia garantisce una serie di vantaggi che alla società, generalmente rappresentata dalla Repubblica, non possono sfuggire. La Costituzione riconosce che la famiglia educa, istruisce e mantiene. Già solo quest’ultima azione è un grande vantaggio collettivo, un bisogno a cui non deve pensare la collettività ma il privato. Inoltre la famiglia educa alle virtù civili, fa apprendere cosa significa stare insieme agli altri. È in famiglia che si apprende il linguaggio e spesso anche la vocazione professionale. È attraverso la famiglia che si fanno quelle scelte che incidono profondamente sulla vita della persona. La Repubblica dovrebbe dirsi: ma perché non sostenere quelle persone che decidono di “metter su famiglia”? Perché non dare una mano a chi oggi decide – ufficialmente, davanti a tutta la comunità civile – di unirsi a un’altra persona e generare figli? Perché non sostenere un ammortizzatore sociale come la famiglia, un istituto capace di placare perfino le punte estreme delle crisi economiche, finanziarie, sanitarie, affettive, psicologiche, morali? Anche solo un banale calcolo economico permetterebbe di affermare che sostenere le famiglie significa produrre efficaci antivirus contro molte malattie sociali.
Ma in Italia, patria della logica familiare, non è così.
 
In Italia fare famiglia sembra una pratica finanziariamente estrema, una sfida alla logica economica. Lo Stato fa pochino... A volte gli effetti di normative pensate per risolvere altri problemi, rischiano di mettere in difficoltà la famiglia. Per questo abbiamo scritto questo documento. Per ricordare alla politica che, in una delicata fase di crisi, la famiglia e il lavoro sono le priorità. Lo vogliamo dire non in modo astratto o ideologico, ma con la forza dei fatti: quelli che osserviamo grazie al nostro lavoro.
 
Invieremo questo documento a tutti i parlamentari bresciani della Repubblica e a tutti i consiglieri regionali lombardi: noi riconosciamo loro un ruolo, ma a loro chiediamo di riconoscere il nostro impegno quotidiano nel fare famiglia.
 
Abbiamo provocatoriamente intitolato questo documento “10 buoni motivi per NON sposarsi”. In realtà noi vorremmo che tutti coloro che hanno la vocazione al matrimonio potessero sposarsi, e che la politica ci aiutasse a togliere quel NON.
 
 
 
Roberto Rossini
Presidente Acli bresciane


I 10 buoni motivi...
... spiegati uno per uno
 
 
# Indicatore Isee - (uno)
 
L’indicatore Isee (Indicatore della Situazione Economica Equivalente) è un parametro che, molto meglio di quanto può fare il reddito complessivo, consente di valutare la situazione economica di un nucleo familiare e di compararlo con quello di altre famiglie che vivono in un territorio.
 
L’indicatore analizza reddito, patrimonio mobiliare ed immobiliare di una famiglia, tiene conto della sua composizione (minorenni, genitori soli, invalidi, lavoratori) e dà un’indicazione sul suo stato di salute economico. Viene perciò sempre più utilizzato da Comuni, Regioni, istituti scolastici, società che erogano servizi pubblici, per stabilire il diritto ed il quantum di bonus, contributi a sostegno del reddito, rette di iscrizione, e via di seguito.
 
Il primo passo da compiere per calcolarlo, è stabilire come è composto il nucleo familiare. Senza entrare troppo nello specifico, rimanendo su un piano generale e comunque rendendo l’idea, il nucleo familiare che viene preso in considerazione è quello che risulta anagraficamente residente in una stessa abitazione, ovvero quello indicato sullo stato di famiglia. A tal proposito, si tenga conto che due coniugi fanno sempre parte dello stesso nucleo familiare, anche se non sono conviventi. Nel nucleo così determinato vengono attratti anche i familiari fiscalmente a carico.
 
Prendendo in considerazione una famiglia numerosa o una con pochi componenti, quale può sperare in un Isee più favorevole? Difficile stabilirlo, perché le variabili che entrano in gioco sono tante.
 
Possiamo però rilevare una distorsione in questo parametro, che è data dalla disparità di trattamento fra una famiglia con figli i cui genitori sono sposati e una stessa famiglia ma con genitori non sposati, a vantaggio di questi ultimi.
 
Consideriamo papà e mamma lavoratori e con due figli: se i due genitori sono sposati, naturalmente il nucleo familiare è composto da 4 soggetti e si calcolano i redditi di entrambi i coniugi; se i due genitori non sono sposati, il nucleo familiare potrebbe essere diverso: in caso di genitori conviventi anagraficamente non ci sarebbero differenze ma, in caso di genitori non conviventi, uno dei due non rientra nel nucleo, con la conseguenza che neppure il suo reddito ne entra a far parte (anche se, di fatto, non è così).
 
Fra l’altro, paradossalmente, questa situazione si verifica quando uno dei due genitori ha la possibilità di spostare la sua residenza altrove perché magari - anzi, quasi sicuramente - è proprietario di un’altra abitazione, con il risultato che non solo non viene preso in considerazione il reddito ma, addirittura, parte del patrimonio immobiliare.
 
Inoltre, il nucleo familiare per il quale calcolare l’Isee risulta essere composto da un solo genitore e da figli minori, con la conseguenza di poter beneficiare di una maggiorazione sul quoziente utilizzato per il calcolo, godendo quindi di un beneficio per una situazione “disagiata” che, di fatto, non corrisponde alla realtà dei fatti.
 
 
# Detrazioni Irpef per figli a carico - (due)
 
La “detrazione per figlio a carico” è una riduzione dell’Irpef lorda che spetta a chiunque abbia almeno un figlio a carico; il figlio è sempre considerato a carico se - minorenne o maggiorenne che sia, convivente o meno con i genitori - nel corso del periodo d’imposta non ha conseguito un reddito lordo proprio superiore a € 2.840,51.
 
L’importo della detrazione non è fisso ma varia a seconda del reddito del genitore ed è, ovviamente, proporzionalmente decrescente al crescere del reddito complessivo, fino ad annullarsi al di sopra di una certa soglia. Quindi, più basso è il reddito, maggiore la detrazione spettante.
 
I genitori non possono attribuire il carico fiscale liberamente tra di loro ma devono necessariamente indicare i figli a carico al 50% ciascuno; possono concordare di attribuire il 100% al genitore con il reddito più alto nel caso in cui l’altro genitore, per il reddito troppo basso, dovesse non poter beneficiare della detrazione.
 
Qualora i genitori siano separati, possono attribuire il carico fiscale al 100% a chi dei due ha ottenuto l’affidamento, sempre che il giudice non abbia stabilito l’affidamento congiunto.
 
Nel caso di genitori non sposati la regola vale comunque ma risulta difficile, per l’Agenzia delle Entrate, stabilire se si beneficia delle detrazioni in modo corretto. Per comprendere questa difficoltà bisogna essere a conoscenza di come vengono indicati i familiari a carico nelle dichiarazioni dei redditi.
 
Due coniugi devono sempre indicare, nella propria dichiarazione, il codice fiscale dell’altro coniuge, anche se non fiscalmente a carico; inoltre, se ci sono figli a carico, il loro codice fiscale deve sempre essere indicato, anche se il carico è sostenuto solo da uno dei due genitori.
 
Dai controlli automatizzati risulta molto facile, quindi, stabilire se marito e moglie stanno beneficiando in modo corretto delle detrazioni per i figli: si stabilisce la percentuale complessiva di carico dichiarata, si incrociano i redditi complessivi dei genitori e si controlla che non abbia richiesto il 100% quello con il reddito più basso.
 
Questo non avviene per chi non è sposato, in quanto non viene indicato in nessun caso il codice fiscale dell’altro genitore. La coppia può beneficiare della maggiore detrazione indicando il figlio a carico a chi dei due ha il reddito più basso, visto che non è possibile verificare dalle sole dichiarazioni i redditi dell’altro genitore.
 

# Assegni al nucleo familiare - (tre)
 
L’assegno al nucleo familiare è una prestazione a sostegno del reddito delle famiglie dei lavoratori dipendenti. La sua peculiarità è quella di essere una misura rivolta all’intero nucleo familiare e non ai singoli componenti. Generalmente viene erogato mensilmente in busta paga e il suo importo è determinato in base alla fascia di reddito nella quale si colloca quello familiare; le fasce reddituali vengono stabilite ogni anno per legge. Gli elementi per stabilire il diritto e la misura di questa prestazione sono due:
individuazione del nucleo familiare;
calcolo e tipologia del reddito riferito alla famiglia.
 
Il nucleo familiare è composto, per legge, da:
il richiedente;
il coniuge non effettivamente e legalmente separato;
i figli minorenni, legittimi, naturali, affiliati o affidati;
i figli maggiorenni inabili, legittimi, naturali, affiliati o affidati;
i figli tra i 18 ed i 21 anni, apprendisti o studenti, legittimi, naturali, affiliati o affidati (ma solo per i nuclei familiari “numerosi”).
 
Il reddito di riferimento è quello complessivo - al lordo delle imposte e comprendente sia gli importi assoggettati all’Irpef che quelli soggetti a imposta sostitutiva o esenti - percepito da tutti i componenti il nucleo familiare. Il reddito così determinato deve essere formato per almeno il 70% da reddito da lavoro dipendente.
 
Fin qui sembra abbastanza facile individuare le famiglie che possono ottenere questo sostegno: consideriamo marito e moglie, valutiamo che nessuno dei due sia lavoratore autonomo (altrimenti sarebbe difficile mantenere il rapporto al di sopra del 70%), consideriamo i figli minorenni, al massimo verifichiamo se ci possono essere invalidi e sommiamo tutti i redditi di ciascun componente.
 
Consideriamo ora due genitori non sposati e conviventi, con uno o più figli minori. Il nucleo familiare, così come determinato per gli assegni al nucleo familiare, non è composto da entrambi i genitori ma solo da uno dei due, insieme ai figli. Risulta più conveniente costituire un nucleo familiare composto dal genitore con reddito da lavoro dipendente più basso e dai suoi figli così da poter beneficiare di un assegno di importo superiore.
 
Il reddito dell’altro genitore non rientra nel reddito familiare perché non fa parte del nucleo; inoltre, non è rilevante che l’altro genitore sia lavoratore dipendente o autonomo.
 
Questa situazione è chiaramente discriminatoria nei confronti di due coniugi con figli rispetto a due genitori, con lo stesso numero di figli, ma non sposati.
 
 
# Esenzione ticket - (quattro)
 
Per le varie esenzioni rispetto ai ticket sanitari inerenti ai figli, si tiene conto del reddito di entrambi i genitori e quindi, se questi non risultano sposati, viene considerato il reddito di un solo genitore.
 
Infatti la normativa, sia nazionale che regionale, stabilisce che i minori di 6 anni appartenenti ad un nucleo familiare con reddito complessivo non superiore a € 36.151,98 hanno diritto, anche al di fuori del territorio regionale, al riconoscimento dell’esenzione nazionale - esenzione relativa solo alle prestazioni specialistiche. Per poter fruire di tale esenzione in altre Regioni italiane, i genitori interessati possono recarsi all’Asl e, seguendo le stesse procedure valide per le autocertificazioni, ottenere un certificato dell’Asl che attesti l’esistenza del diritto all’esenzione per i loro figli.
 
Regione Lombardia ha deciso di rendere esenti sia per le prestazioni specialistiche che per le prestazioni farmaceutiche tutti i minori lombardi al di sotto dei 14 anni di età. I minori in questione, quindi, godono di una esenzione ben più ampia di quanto riconosciuto a livello nazionale. Ovviamente, tale esenzione può essere fruita solo per prestazioni erogate sul territorio regionale: al di fuori del territorio lombardo, ovvero nelle altre Regioni, essa non è fruibile.
 
Stabilito ciò, vediamo cosa si intende per “nucleo familiare” ai fini dell’esenzione. Fanno parte del nucleo familiare, ai fini fiscali (quindi anche ai fini dell’esenzione dal pagamento del ticket):
il dichiarante,
il coniuge non legalmente ed effettivamente separato (anche se non a carico),
i figli,
le altre persone conviventi,
le altre persone a carico ai fini Irpef, per le quali spettano detrazioni per carichi di famiglia in quanto titolari di un reddito non superiore a € 2.840,51.
Non si considera, quindi, il nucleo anagrafico che risulta dallo stato di famiglia, ma solo il nucleo fiscale.
Le persone, pur conviventi, che dispongono di redditi propri costituiscono, con l’eccezione del coniuge, nuclei familiari autonomi.
 
 
# Asili nido - (cinque)
 
Gli enti locali quando scrivono i regolamenti di accesso ai nidi comunali, assegnano, in partenza, un vantaggio a figli di ragazzi-padre o ragazze-madri, di genitori separati o divorziati, o anche di genitori separati o divorziati con affidamento congiunto, che in diversi casi si rivela incolmabile per i figli di coppie “solide”.
 
Mediamente si va da dieci a cinque punti oltre il punteggio determinato dagli altri fattori. Tutto ciò porta al risultato che non poche coppie, per favorire l’ingresso di loro figlio al nido, uno o due mesi dopo la nascita del pargolo, decidono di separarsi, con l’effetto paradossale di mamme che prendono residenza dalle nonne per dimostrare che con il loro partner è veramente finita e papà che riconoscono il bambino solo dopo tre anni di vita.
 
In linea di massima il principio può essere giusto, però si presta, come spesso succede, a facili giochi truffaldini. Infatti diverse madri, all’atto di iscrizione, dichiarano di essere sole, salvo poi, nella realtà, avere un convivente. Ciò perché ai figli di una famiglia monoparentale - cioè di ragazze madri, vedove/i, separate/i e che non hanno nessun tipo di collaborazione dell’ex coniuge - è attribuito un punteggio maggiore. E non sempre il calcolo del punteggio attribuito agli altri indicatori colma il gap iniziale.
 
Oltre al discorso legato alle graduatorie e alle possibilità di accesso ai nidi, a giocare sulla scelta di alcune coppie, sposate o semplicemente conviventi, di separarsi fittiziamente è anche la possibilità di usufruire del nido a prezzi agevolati.
 
Il contributo richiesto all’unico o a entrambi i genitori, infatti, è calcolato sulla base dell’Isee. Ovviamente, se i genitori risultano separati, l’Isee sarà presentato da uno solo dei due ex coniugi o conviventi: e a Isee più basso corrisponderà una fascia di contribuzione più bassa.
 
 
# Case popolari - (sei)
 
I bandi per l’accesso alle case di edilizia residenziale pubblica variano da regione a regione, ma in molte sono previste corsie privilegiate per donne e uomini soli, con figli a carico.
Anche in questo caso la regola appare giusta, ma il gioco è fin troppo ovvio: la domanda è presentata dalla donna, che autocertifica di esser rimasta sola con il figlio a carico.
In realtà, la situazione non è proprio così: il marito o convivente continua a vivere con lei, anche se, ufficialmente, ha residenza anagrafica altrove.
 
 
# Sostegno all’affitto - (sette)
 
Una volta entrati, per il conteggio dell’affitto, si tiene conto del reddito, così come dichiarato nel 730, nell’Unico o nel Cud: anche in questo caso, una eventuale separazione fittizia gioca a favore dell’abbassamento del canone.
 
Come lo gioca per la richiesta di sostegno all’affitto, che è garantito nel caso in cui il canone richiesto dal locatore è superiore al 30% del reddito del nucleo familiare: anche in questo caso, per molti, meglio denunciare uno stipendio anziché due.
 
 
# Assegno sociale - (otto)
 
L’assegno sociale è una prestazione assistenziale, in quanto viene erogata a chi non ha versato contributi sufficienti alla maturazione del diritto alla pensione, si trova in uno stato di bisogno economico e ha compiuto 65 anni, età oltre la quale, per presunzione di legge, si perde la capacità lavorativa (per il 2013 è già 65 anni e 3 mesi e aumenterà progressivamente).
 
è una prestazione di sostegno ai coniugi; ciò vuol dire che lo stato di bisogno economico si valuta sul reddito coniugale se il richiedente è sposato: ne ha diritto l’ultrasessantacinquenne se il suo reddito, cumulato con quello del coniuge, al netto delle ritenute Irpef, si trova al di sotto di un determinato importo stabilito ogni anno per legge. Il reddito di riferimento è quello personale nel caso di richiedente solo, quindi non sposato oppure legalmente ed effettivamente separato.
 
Anche in questo caso la ratio della norma è corretta e condivisibile, come per l’integrazione al trattamento minimo, ma risulta avvantaggiato sempre chi ufficialmente una famiglia non ce l’ha. Il convivente o il separato, con più di 65 anni e senza reddito può ottenere l’assegno e vivere con il proprio compagno o compagna, o ex coniuge.
 
 
# Integrazione al trattamento minimo e maggiorazioni sociali - (nove)
 
L’integrazione al trattamento minimo e le maggiorazioni sociali sono prestazioni accessorie di una pensione, che vengono erogate quando questa risulta essere di un importo talmente basso che non consentirebbe la sussistenza del pensionato. Queste comportano l’aumento della pensione a un ammontare, stabilito ogni anno per legge, che è ritenuto sufficiente per soddisfare i bisogni primari del titolare (cosiddetto “minimo vitale”).
 
L’integrazione al trattamento minimo spetta a qualsiasi età per qualsiasi prestazione pensionistica del sistema retributivo, legata quindi al versamento di contributi, tenendo però conto dei limiti reddituali personali e coniugali imposti dalla legge. Non spetta, quindi, per l’assegno sociale e per le prestazioni agli invalidi civili.
 
Le maggiorazioni sociali spettano sia sulle pensioni derivanti da contributi, sia sulle pensioni assistenziali (assegno sociale, invalidità civili ecc.) ma solo in base a certe condizioni di età e di reddito.
 
Infatti, essendo degli aiuti economici rivolti a percettori di pensioni ritenute basse, vengono erogati solo se il titolare versa effettivamente in uno stato di bisogno, valutato unicamente sull’ammontare del proprio reddito personale e, se sposato, coniugale: in prima battuta si valuta che il reddito personale non superi il limite stabilito; se ciò si verifica, si analizza allora quello coniugale e, se anche questo rientra nei limiti stabiliti, il titolare ha diritto all’integrazione o maggiorazione.
 
La scelta di subordinare al reddito coniugale queste prestazioni accessorie appare giusta, anche in virtù dell’obbligo di assistenza e sostegno reciproco che hanno i coniugi, come previsto dall’art. 143 del Codice Civile.
 
In questa situazione, si trova avvantaggiato chi, ufficialmente, una famiglia non ce l’ha. è il caso di titolari di pensioni basse, senza reddito, non sposati ma conviventi: il matrimonio potrebbe far perdere il diritto all’integrazione con conseguente riduzione delle entrate per la coppia.
 
Oppure si pensi al caso, purtroppo a volte praticato, di coniugi che scelgono la separazione consensuale con lo scopo di ottenere benefici economici altrimenti non spettanti; infatti, in caso di coniugi separati, il diritto all’integrazione o maggiorazione si valuta solo sulla base del reddito personale.
 
 
# Pensione di reversibilità - (dieci)
 
La pensione di reversibilità è una prestazione che spetta ai superstiti di una persona deceduta che era titolare di pensione oppure che era lavoratrice al momento del decesso o che ha lavorato e raggiunto determinati requisiti contributivi. Tale prestazione è stata prevista per venire incontro alla difficoltà che può avere una famiglia che, perdendo un proprio caro, può restare priva di una o dell’unica fonte di sostentamento.
 
Per questo motivo, tra gli aventi diritto troviamo i figli minori, i maggiorenni che siano studenti e quelli inabili, i genitori - se viventi e a carico - e, sempre, il coniuge che non si risposa. Ne ha diritto anche se separato - purché la separazione non sia per sua colpa - o divorziato, se aveva diritto a percepire l’assegno di mantenimento.
 
Per quanto riguarda il coniuge, ciò che conta è che questi mantenga lo stato vedovile: se si risposa perde il diritto alla pensione. Questa previsione si può considerare corretta visto che, formando una nuova famiglia, si presume che venga meno lo stato di bisogno del percipiente la reversibilità.
 
Da un punto di vista meramente “contabile”, però, per un vedovo o, magari, per due vedovi, entrambi titolari di pensione di reversibilità, che si trovano e voglio farsi una vita insieme, è molto più conveniente scegliere la convivenza che non il matrimonio: in questo modo, infatti, si assicurano una doppia prestazione che, altrimenti, verrebbe immediatamente meno, dal momento che avrebbero diritto unicamente alla liquidazione di una “doppia annualità” (ovvero, verrebbero pagati due anni di pensione con un unico versamento finale).
 
 
 
C.v.d. (come volevasi dimostrare)
 
Come abbiamo cercato di dimostrare nelle pagine di questo agile documento, in Italia oggi non conviene sposarsi. Sono infatti numerosi i casi in cui lo Stato discrimina e penalizza chi decide di “mettere su famiglia” rispetto a chi non lo fa - preferendo fare altre scelte - o a chi lo fa ma non lo fa in forma “ufficiale”, magari per godere di quei benefici insiti nelle pieghe delle normative fiscali.
 
Il nostro sistema fiscale, come ci pare di aver dimostrato, troppe volte ostile alla famiglia, sembra indifferente nel riconoscimento del valore dell’istituto famiglia. La cosa appare ancora più evidente se allarghiamo un poco lo sguardo e consideriamo quanto avviene in Paesi a noi vicini come, ad esempio, Francia e Germania.
 
Nel nostro Paese la questione cruciale risiede nel fatto che il mancato riconoscimento fiscale delle famiglie di fatto, paradossalmente, è discriminante nei confronti delle famiglie riconosciute. Questa discriminazione andrebbe superata parificando, almeno ai fini fiscali, le famiglie non sposate a quelle sposate.
 
Di fronte a tale ipotesi, siamo consci che rimane in sospeso la questione del come. Azzardare risposte non è facile! Ciò detto, pensiamo sia necessario mettere mano alle regole, soprattutto ai fini previdenziali e assistenziali, che appaiono datate e che seguono la logica dell’erogazione a pioggia, ciò anche in virtù del fatto che, in futuro, le risorse sociali saranno sempre più risicate ed è quindi tempo di distribuirle a chi veramente ne ha bisogno.
 
A partire da questi paradossali e provocatori 10 buoni motivi per non sposarsi in Italia - sottolineando che i motivi potrebbero essere più o meno di 10 o 10 diversi da quelli indicati e che questi sono frutto di una scelta e della conseguente denuncia per tener desta l’attenzione sul tema - noi, che crediamo naturalmente e con convinzione nella famiglia, proviamo ad andare oltre.
 
 
Andiamo oltre
 
Da quanto evidenziato emerge chiaramente che il sistema fiscale italiano penalizza la famiglia. Fondandosi sulla tassazione a base individuale, infatti, a parità di reddito penalizza le famiglie, anche quelle monoparentali.
 
Sono ancor più colpite le famiglie che, si potrebbe dire, hanno “la sventura” (fiscale) di ritrovarsi dei figli a carico; in particolare sono penalizzate le famiglie più numerose, dal momento che il nostro sistema fiscale ritiene che la capacità contributiva sia influenzata in modo irrilevante dalla presenza di figli. Ciò perché, non tenendo conto adeguatamente dell’onere dei costi ai quali la famiglia deve far fronte per l’educazione, la formazione, l’istruzione e, più in generale, il mantenimento dei figli, non si considera che, in presenza di carichi familiari, i redditi equivalgono – in termini di benessere materiale – a redditi inferiori e, pertanto, ad una capacità contributiva inferiore. Necessariamente, quindi, ne consegue che per giungere compiutamente al traguardo dell’equità orizzontale, sia ineludibile un’adeguata considerazione fiscale dei figli a carico.
 
Da questo stato dell’arte discendono molteplici conseguenze.
 
Una è rappresentata dal fatto che, a fronte di un sistema fiscale così scarsamente sensibile ai problemi delle famiglie, il rovescio della medaglia è il ridotto tasso di natalità, problema caratteristico del nostro Paese e situazione ben lungi dall’essere risolta.
 
Viste le premesse, quali potrebbero essere concrete ipotesi di miglioramento del sistema nella direzione di venire incontro alla famiglia?
 
Tante sono state le proposte e i modelli avanzati per cercare di uscire dalla situazione attuale e già da tempo la materia è stata oggetto di studi approfonditi, al centro di dibattiti anche molto accesi e di scontri, per lo più ideologici, molto forti. Dall’aumento - ma anche l’eliminazione - delle detrazioni fiscali all’introduzione di adeguate deduzioni per i familiari a carico, all’introduzione di un modello rinnovato di assegni familiari. Indubitabilmente, però, i due modelli che hanno riscontrato maggiore attenzione e interesse da parte delle varie forze politiche, sociali ed economiche sono il quoziente familiare e il fattore famiglia.
 
Il primo - il cosiddetto quoziente familiare, che ormai abbiamo imparato a conoscere ed è entrato nel linguaggio comune - è un sistema che, a nostro avviso, per l’Italia si rivela di difficile attuazione, costoso e con effetti distorsivi. Si deve considerare, infatti, che l’applicazione di tale sistema produce un’attenuazione della progressività dell’imposizione, soprattutto a beneficio delle famiglie ad alto reddito. In ultima analisi si risolve il problema dell’equità orizzontale creandone, però, uno grosso di equità verticale.
 
Più interessante e meno problematica appare un’altra proposta, che conduce ad una riforma fiscale che abbia come obiettivo la promozione di un’equità fiscale a misura di famiglia, attraverso l’alleggerimento del carico fiscale prima di tutto sulle famiglie, ma anche sul lavoro dipendente.
 
Tale proposta, che va sotto il nome di fattore famiglia, prevede l’introduzione di un’area non imponibile (no tax area) proporzionale alle necessità vitali del nucleo familiare. Ciò discende dal presupposto secondo cui le necessità familiari non possano e non debbano costituire “capacità contributiva e quindi non devono essere soggette a tassazione. In quest’ottica, i carichi familiari contribuiscono in maniera evidente e in modo fondamentale alla determinazione dell’ammontare di reddito non soggetto ad imposizione.
Anche il fattore famiglia prevede un sistema fiscale basato non solo sull’equità verticale ma anche sull’equità orizzontale che, a parità di reddito percepito, tenga conto dei componenti del nucleo familiare.
 
Con tale sistema, innanzitutto viene stabilito e quantificato il costo di mantenimento indispensabile della singola persona, coincidente con il minimo vitale: tale costo rappresenta un livello minimo di reddito non imponibile.
 
Moltiplicando quindi tale costo per un valore dedotto da una scala di equivalenza (che costituisce, in sostanza, il fattore famiglia) modulata sia sul numero dei componenti del nucleo familiare che sulle situazioni particolari degli stessi – quali, ad esempio, la non autosufficienza, la disabilità, la monogenitorialità, la vedovanza ecc. – si determina un’area non tassabile, non soggetta ad imposizione, a misura di famiglia.
 
Ai redditi al di sopra di tale area di esenzione, si applicano invece le normali aliquote progressive Irpef, tenendo conto della no tax area ai soli fini della determinazione degli scaglioni di reddito.
 
Qualora la no tax area dovesse risultare superiore al reddito – si rientrerebbe nel caso della cosiddetta “incapienza” – la parte eccedente il reddito viene tassata in modo negativo, applicando la prima aliquota Irpef. La tassazione negativa può diventare un credito d’imposta o può essere elargita come assegno.
 
Considerato il costo che la manovra per correggere il sistema secondo il fattore famiglia avrebbe e la presenza comunque di alcune criticità anche in tale sistema - alcune sono le medesime riscontrabili anche per il quoziente familiare, altre sono più specificamente riguardanti tale sistema di imposizione - è ipotizzabile l’introduzione del fattore famiglia in maniera graduale, secondo quattro direttrici:
 
partendo da un costo definito di mantenimento della singola persona (che potrebbe essere fissato intorno ai 6.500 €);
favorendo in primis le famiglie più numerose con redditi medio-bassi;
modificando gli attuali assegni al nucelo familiare a favore delle famiglie meno avvantaggiate dal fattore famiglia;
consentendo un recupero parziale d’imposta per gli incapienti, fissando, ad esempio, un credito d’imposta intorno al 30%.
 
 
Al di là delle ipotesi, dei modelli e delle proposte – sui quali si può ragionare e discutere, ma ci sembra che lo si stia facendo da tempo, da troppo tempo, senza giungere a una conclusione – l’importante è decidere e agire per cercare di cambiare la situazione e migliorare, rendere più equa e sostenibile, la posizione di contribuenti e famiglie, senza che qualcuno sia quasi “costretto” a ricorrere a mezzi, pratiche e modalità imbarazzanti, umilianti, assurde.
 
In conclusione, rispetto a quoziente familiare, fattore famiglia e ad altre possibili proposte, bisogna far sì che le persone non siano costrette, per avere una convenienza o un risparmio, a separarsi o a non formare una famiglia perché, paradossalmente, queste “pratiche” risultano maggiormente vantaggiose.
 
Il tempo è scaduto, bisogna decidere e correggere le distorsioni del sistema che si è venuto a creare e, come detto in premessa, il nostro tentativo di portare un contributo e la nostra sentita richiesta di intervenire e mettere finalmente mano a questo sistema sono rivolti, in primis, a tutti i parlamentari bresciani della Repubblica e a tutti i consiglieri regionali lombardi.
 
In Italia c’è un bisogno latente - ma forse nemmeno così recondito – di scrivere, finalmente, una volta per tutte, come atto concreto dopo tante belle parole e intenzioni, una legge a sostegno delle politiche familiari, che riconosca il ruolo pubblico della famiglia e la conseguente necessità di tutela di questo istituto, che le dia dignità e considerazione come soggetto sociale e fiscale. L’elenco da noi fatto, questi paradossali e provocatori “10 buoni motivi per non sposarsi in Italia”, ci auguriamo ed auspichiamo che possano rappresentare il menu o l’ordine del giorno delle cose da trattare, la traccia o lo schema per scrivere tale legge. Noi siamo a disposizione.
 
 
 
A cura di:
Ufficio studi
Caf
Patronato
 
delle 
Acli bresciane
 

 

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