Il Consiglio Provinciale delle Acli bresciane, in merito alle vicende degli stabilimenti Fiat in Italia, ritiene anzitutto che ogni investimento vada salvaguardato, garantendo ed aumentando l'occupazione.
L'antagonismo sociale non può certamente rappresentare il metro esclusivo delle relazioni industriali, tuttavia la Fiat non deve ritenere che la produttività e la competitività dei propri stabilimenti sia assicurata semplicemente estromettendo pezzi di rappresentanza dei lavoratori dalla vita aziendale. I conflitti vanno gestiti dentro le regole della legittimazione delle controparti non certo rinnegandone l'esistenza. In questo rientra anche la minaccia della Fiat di uscire dal proprio organismo di rappresentanza: anche il sistema di rappresentanza dell'industria non può essere considerato come un autobus su cui salire e scendere a seconda delle convenienze... Questo atteggiamento, che oggi può sembrare una facile scorciatoia, potrebbe rappresentare in futuro un rischio di ingovernabilità delle relazioni industriali.
Se le relazioni sindacali sono da troppo tempo in una pericolosa palude è anche dovuto al fatto che la richiesta di una maggiore responsabilità di tutto il mondo del lavoro, in nome della quale costruire più competitività delle imprese e del paese, non è stata accompagnata da adeguati processi di partecipazione. L'abbandono dei vecchi modelli, non potrà avvenire se non dentro un quadro di nuova democrazia economica che promuova la partecipazione dei lavoratori alle scelte e al destino delle imprese. Gli stessi referendum senza questi presupposti rischiano di diventare vuote formulazioni rituali.
Dobbiamo rilanciare un modello di conduzione che esuli dal solo possessore del pacchetto azionario per partecipare alla distribuzione degli utili. Il modello a cui tendere è quello della cogestione, quello dove, oltre alla partecipazione azionaria, sia valorizzato il lavoro in se. E quanto valore ha in se il lavoro lo dimostrano in questa fase di crisi molte imprese, molte aziende artigiane che fanno sacrifici, pur di non licenziare i propri lavoratori consapevoli delle loro capacità professionali difficilmente rintracciabile sul mercato una volta che si avvia la ripresa.
Questa vicenda rimanda comunque ad alcune grandi questioni che debbono essere seriamente affrontate per imprimere un deciso cambiamento al modello ormai obsoleto delle relazioni industriali. Basti pensare all'insufficiente tutela sociale del lavoro, oggi espressa dalla vigente legislazione, che deriva da misure di protezione ormai vecchie e incapaci di garantire i nuovi lavori e in particolare i giovani. Basti pensare inoltre che gli oltre 400 contratti di categoria che pretendono di definire diritti e prestazioni nell'ambito del lavoro dipendente hanno carattere nazionale, quando invece i processi di globalizzazione dell'economia richiederebbero una negoziazione almeno a livello europeo. Come le Acli hanno proposto nel proprio progetto di Statuto dei Lavori, sostenuto da 100 mila firme, ci vuole una chiara definizione dei diritti inalienabili di ogni rapporto di lavoro, compresi i contratti atipici, e su di essi inscrivere gli obblighi di un intero sistema economico.
Ma è altrettanto doveroso che l'impresa illustri con chiarezza i dettagli dei propri progetti, non solo per rendere più chiaro il ruolo del nostro Paese nel contesto dell'internazionalizzazione, ma ancor più per corrispondere alla responsabilità sociale nei confronti del proprio territorio a cui ogni azienda oggi non può sottrarsi. La responsabilità sociale dell'impresa è il principio che può orientare il cammino dell'impresa, perché non si esce dalla crisi con le sole parole dell’economia.
In questa difficile vicenda è certamente palese la debolezza del Governo, che è stato assente e senza una proposta, se non appiattendosi sulle posizioni di una parte anziché porsi come parte terza rispetto al conflitto in campo. Non ci è mai capitato di osservare che in un Paese un politico si auguri che chi produce ricchezza se ne vada in un altro Paese.
E’ però necessario che il mondo del lavoro raccolga la provocazione di Marchionne. Dopo tanto tempo il lavoro è ridiventato di interesse pubblico e sociale. Non dobbiamo però fermarci solo alla Fiat poiché fuori da quei cancelli i problemi sono ancora più gravi; si pensi ai molti lavoratori come quelli delle migliaia di pseudo-partite Iva o dei contratti atipici. Ma non si vuole accendere un ulteriore conflitto di classe tra operai ed impiegati, come qualcuno ha voluto fare dopo l’esito di Mirafiori, alimentandolo con le coorti giovanili offsider del mercato del lavoro. Occorre invece avviare una vera riflessione sul concetto stesso di lavoratori. Lo dobbiamo fare per superare le disuguaglianze strutturali dell’Italia, le tante dicotomie di genere, di età e di territorio, dove il 30% dei giovani tra 15 e 24 anni è disoccupato, un milione non studia e non lavora, e dove 3 milioni hanno o avevano un contratto atipico. Questo è il vero problema del paese e del futuro. Ma non possiamo affrontarlo con gli strumenti del passato, non fosse altro perché oggi la dimensione è globale. Servono nuove relazioni industriali, ma occorre superare il conflitto tra capitale e lavoro e lo si può fare solo quando c’è armonia e sintonia tra le diverse soggettività di lavoratori. Se ognuno condivide i propri talenti in una “comunità di uomini” qual é l’impresa, potremo superare le grandi contrapposizioni.