Nel 25° anniversario del tragico incidente che lo falciò con la sua famiglia, la passione del segretario Dc del fallito cambiamento rimane spunto sul che fare ora
Venticinque anni. Tanti ne sono passati da quel 13 luglio 1987 quando, in un fatale incidente stradale, morivano Gervasio Pagani, la moglie Emanuela Martinelli e le figliolette Elisabetta e Francesca. Chi non ha vissuto quella stagione politica magari non ne ha memoria. Eppure quel tempo, denso di attese e di fallimenti, può ancora aiutare a scegliere cosa fare nell’attuale, ulteriore passaggio di cambiamento strutturale.
Chi era Pagani? Aveva 37 anni quando morì. Era nato e abitava a Coccaglio: un tempo i politici amavano la radice territoriale che li aveva cresciuti. Faceva l’insegnante liceale, per passione prima ancora che per lo stipendio: educare i giovani a sentirsi protagonisti del vivere civile. Militava nella Dc, nella Sinistra del Circolino che affondava le radici nella Om. Uomo di parte, dunque. Schierato, rigido, amato e contrastato. La Dc bresciana, che avvertiva il disfarsi nazionale, lo aveva chiamato, per una stagione, ad essere il segretario provinciale che impersonava l’idea, e la necessità, del cambiamento. Poi andò diversamente. Qualche settimana prima di morire, Pagani aveva mancato l’elezione alla Camera per una vera e propria manciata di preferenze.
Venerdì 13 luglio, a Coccaglio, si farà memoria di quella amiglia, di quella persona e della sua testimonianza di vita. Alle 20, nella Vecchia Pieve in Castello, una Messa in suffragio con canti sacri eseguiti dal gruppo vocale degli allievi di Julia Demenko. Alle 21, nell’Auditorium S. Giovanni in Castello, incontro con don Virginio Colmegna, presidente di Casa della Carità di Milano, che presenterà il suo ultimo libro «Non per me solo», vita di un uomo al servizio degli altri. Introdurrà Roberto Rossini, presidente pro- vinciale delle Acli.
«Il primo pensiero, e certamente il più giusto, è che le persone contano più degli avvenimenti. Quel che è eterno in loro vive in modo perfetto, alla presenza del Signore, e in modo imperfetto nella memoria degli amici, che si sono riconosciuti fra loro lavorando insieme. Le circostanze sono tutte tramontate, i discorsi e gli atti di allora non sono più ripetibili, ma qualcosa che c’era in più, nelle parole e negli atti del nostro amico - la baldanza, la generosità, la serena accettazione del rischio - rimane un valore permanente, che sollecita tutti noi esattamente come allora» scrisse Leonardo Benevolo nel fascicoletto pubblicato dai Quaderni di Humanitas nel decennale della morte. I temi della stagione passata e al contempo del cammino compiuto e ancora da farsi di un’idea attraversarono quegli interventi. Tra l’altro Pietro Scoppola, che pure precisò «non voglio prestare a Gervasio Pagani idee maturate in seguito nel nostro gruppo», rilevava: «Intuivamo allora quel che poi si è verificato al di là di ogni possibile previsione. Il passaggio, mediante il maggioritario, ad un sistema politico tendenzialmente bipolare avrebbe messo in crisi l’unità della Dc e con essa l’unità politica dei cattolici. Avrebbe Gervasio accettato di percorrere quella strada? Egli era radicato come pochi nella tradizione culturale della Dc, intesa appunto più come tradizione che come partito: era in uso fra di noi l’espressione "cattolicesimo democratico" proprio per dare rilievo ad una distinzione dal partito e dalle forme contingenti che esso aveva assunto. Gervasio sentiva con forza questa distinzione e avvertiva che il compimento del ruolo storico che la Dc aveva svolto come asse centrale della politica italiana era quello appunto della costruzione di una democrazia compiuta. Di fatto fu favorevole alla linea riformatrice della segreteria De Mita nella sua prima fase e critico severo della involuzione successiva che avrebbe portato a ridurre l’alternanza al ben più modesto "patto della staffetta", poi non rispettato».
Oggi ci risiamo: che democrazia possibile vogliamo? Quale tessuto di rappresentanza politica può favorirla? Che farne dei partiti?
Adalberto Migliorati